Ripartono in Campania gli incendi dei siti di stoccaggio di rifiuti difficilmente classificabili, ed eccezion fatta per pochissime coraggiose testate giornalistiche locali, la stampa mainstream, quella che sostanzialmente circuisce e indirizza le masse, tace ed insabbia quello che potrebbe rivelarsi il più grande scandalo italiano dal dopoguerra dopo tangentopoli.
L’aspetto che più sconvolge di questa nuova piaga, è che stavolta non ha avuto bisogno di “gole profonde”, come lo fu quel Mario Chiesa che, colto sul fatto, con le sue dichiarazioni iniziali sul Pio Albergo Trivulzio, scoperchiò una delle più grandi cloache affaristiche dal dopoguerra a quei giorni.
Stavolta fatti e avvenimenti concatenati fra di loro, sono pubblici. Documentazioni senza censure, tagli o oscuramenti dovuti a ipotetici “segreti di Stato”. Decisamente facili da reperire sul web. Ma andiamo per ordine.
Dieci anni fa, l’attuale governatore della Regione Campania Vincenzo De Luca, nel suo programma elettorale ci inserì “ad arte”, una tematica che fece molta presa sull’opinione pubblica e, ovviamente, sull’elettorato. La bonifica di Taverna del Re a Giugliano in Campania. Una vera e propria bomba termonucleare in termini ecologici che nell’assordante silenzio che ha contraddistinto aule di tribunali, segreterie di partiti e redazioni giornalistiche “addomesticate”, ha causato nell’area migliaia di morti per cancro. Ma ci sta. Siamo in Campania. Altrove, la gente, avrebbe dato vita già al linciaggio sistematico.
A distanza di 10 anni, a Taverna del Re, al confine con l’agro aversano, quando le gru agguantano le ecoballe le sbriciolano e un polverone insalubre invade l’area. E non fa distinzione fra zone residenziali, campagne o terreni coltivati confinanti. Inonda e uccide. Ormai lo smaltimento delle ecoballe ha raggiunto il muro che confina con i frutteti di pesche, albicocche, prugne e le coltivazioni orticole sempre fiorenti in quella zona.
Una situazione che vede le proteste degli agricoltori, preoccupati per le polveri sottili e le esalazioni nauseabonde, dannose per la loro salute e la qualità dei prodotti delle loro terre, ma nessuno sembra ascoltarli. Da Coldiretti alla DDA, fino alle procure e prefetture, il disinteresse è totale.
Inascoltati anche i residenti, i commercianti e gli agricoltori che operano lungo l’arteria che collega Parete, Lusciano e Aversa. Cittadini che hanno messo in atto una vibrante protesta per il passaggio di camion che trasportano a flusso continuo le ecoballe sbriciolate non regolarmente isolate, diffondono nell’aria polvere e puzza nauseabonda.
Unica voce delle istituzioni ad essersi alzata In merito a tutta questa vergognosa vicenda, all’inizio di febbraio di quest’anno, è stata quella della consigliera indipendente regionale, Marì Muscarà, presentando un’interrogazione a risposta scritta alla Giunta regionale per tentare di fare chiarezza sulla gestione degli impianti di trattamento delle ecoballe nei siti di Giugliano e Caivano e sulla destinazione dei materiali lavorati.
“Ci chiediamo che fine stiano facendo realmente le ecoballe – dichiarò Muscarà – dove vengano trattate e, soprattutto, dove finiscano i rifiuti non recuperabili, che non possono essere trasformati in Combustibile Solido Secondario (css). A distanza di anni dall’inizio delle operazioni, è inaccettabile che le istituzioni continuino a non dare risposte chiare ai cittadini”.
Mari Muscarà, giova ricordarlo, è attualmente indipendente dopo aver lasciato nell’ordine, prima il M5S col quale era stata eletta e poi il Partito Democratico, delusa anche da questo per il disinteressamento e l’incapacità di affrontare e risolvere la problematica.
“Monnezza & Politica” in Campania è stato da sempre indissolubile binomio che ha determinato sinergie inimmaginabili. Sinergie che sembrano aver inglobato finanche altri pezzi dello Stato.
A che titolo, lo dovrà scoprire la magistratura. O meglio, quella non politicizzata e libera da condizionamenti esterni. Situazione complessa se si prendono in considerazione gli ultimi due episodi accaduti questa estate nell’alto casertano. Rispettivamente Teano e ad Ailano. Ad Ailano ad una azienda che produceva stampi in plastica, (la Metal Plast Srl), fu incredibilmente concessa la riconversione dell’attività in “sito di stoccaggio e trattamento di rifiuti”.
Un gigantesco capannone situato a meno di 80 metri dal corso del fiume “Lete” affluente del Volturno in cui da mesi si sta riversando il percolato proveniente dal sito di stoccaggio, sotto sequestro dal maggio scorso per un “incendio anomalo”. Da maggio ad oggi, nessun controllo risulta essere stato fatto sul tipo di rifiuti pericolosi contenuti nelle ecoballe all’interno del capannone. Cespite che ne risulta pieno fin sopra il soffitto.
E come da copione, dopo una serie di vendite, presumibilmente fittizie, sono spariti nel nulla tutti i responsabili che si sono succeduti nella conduzione dell’attività. A Teano invece, un gigantesco incendio il 16 agosto ha devastato un altro sito di stoccaggio e trattamento rifiuti. Quello dell’azienda Campania Energia, una azienda che si occupava del recupero e trattamento di rifiuti plastici e gommosi. Ci sono voluti 15 giorni per completare le operazioni di spegnimento e messa in sicurezza del sito.
L’area di circa 4.500 metri quadrati ha bruciato per 15 giorni sprigionando una quantità spaventosa di diossina ed altri agenti chimici tossici. Pochi giorni dopo il sindaco di Teano, Giovanni Scoglio, aveva firmato una ordinanza per bloccare la raccolta di frutta e ortaggi in seguito al responso dell’Arpac, che aveva segnalato sforamenti nei valori di diossine, furani e policlorobifenili.
Troppo alti i costi per smaltire rifiuti pericolosi altamente tossici. Più conveniente appiccare il fuoco quando i siti di stoccaggio sono pieni. Questa in sintesi la motivazione che inquirenti e politica no riescono a vedere, o meglio, non vogliono vedere. Ma perché?
Per conoscere le ragioni del perché di taluni comportamenti, basterebbe andare a rileggere attentamente le dichiarazioni del pentito Carmine Schiavone, cugino di Francesco Schiavone, il famigerato “Sandokan”. Decine di pagine desegretate ma non reperibili in rete facilmente. Per chi però avesse intenzione di sintetizzare, può andarsi a rivedere una inquietante intervista ( https://youtu.be/JM-vPb99mxk?si=-2PAL6Zf0KTNMX5- ) allo stesso Carmine Schiavone datata 2013. Intervista fatta due anni prima che Schiavone, il contabile del clan dei casalesi morisse nel febbraio del 2015 di cancro.
Ad intervistare Schiavone, scarrozzandolo in auto lungo le periferie di Casal di Principe, c’era un certo Sandro Ruotolo. All’epoca faceva il giornalista. Oggi è europarlamentare del Partito Democratico. Fortemente legato ai servizi segreti. Oggi come allora. Morale: Mai nessuna bonifica è stata presa seriamente in considerazione nonostante l’incidenza dei casi di tumore abbia raggiunto numeri spaventosi.
Una peculiarità solo campana quella di “Monnezza Connection”? Niente affatto. Per la serie “Mal comune, mezzo gaudio”, una vicenda ancora poco nota, torna alla ribalta grazie alla caparbietà di autentici servitori dello Stato (quello sano).
Lui è Giuseppe Di Bello, ex tenente della polizia provinciale di Potenza. Nel 2010, mentre era in servizio, si accorse di un inquietante cambiamento di colore dell’invaso del Pertusillo, sotto il bivio di Montemurro, ed iniziò ad indagare. Così, durante i giorni di riposo, a sue spese, prese un canotto a remi e prelevò dei sedimenti sui fondali e fece delle analisi chimiche.
La sua ricerca rivelò la presenza nelle acque di metalli pesanti, idrocarburi alogenati e clorurati cancerogeni. Da quelle acque che dissetano la Puglia e irrigano i campi della Lucania affioravano pesci morti, segno della presenza di un pericoloso avvelenamento. Nei pozzi dei contadini c’erano sostanze cancerogene anche 1.000 volte oltre i limiti.
C’era’ in gioco la salute di tutti, e così scelse di non attendere, di non voltarsi dall’altra parte. Temendo che quei documenti in mano alla burocrazia potessero essere nascosti dai poteri forti che vi si celavano, affidò all’allora segretario dei radicali lucani, Maurizio Bolognetti, affinché venissero divulgate. Tutti dovevano sapere, e il prima possibile.
Qualche mese dopo Giuseppe Di Bello venne sospeso dal servizio e condannato per rivelazione di segreti d’ufficio. Il prefetto gli revocò per “disonore” anche la qualifica di agente di pubblica sicurezza e lo spedì a fare il custode al museo di Potenza.
In seguito a questa pubblica umiliazione, Giuseppe Di Bello accettò l’imposizione, ma nel tempo libero continuò a fare quel che faceva prima. Costituì un’associazione insieme a una geologa, una biologa e a un ingegnere ambientale e andò avanti nelle verifiche volontarie. Intanto la contaminazione dilagava, giungendo fino a Pisticci, novanta chilometri più a est. Tracce di radioattività superiori al normale vennero rintracciate nei pozzi rurali dei contadini, ma le istituzioni sentenziarono con la conferma di condanna a due mesi e venti giorni di reclusione.
Passano gli anni, ora la Cassazione ha annullato la sentenza. La magistratura lucana si è accorta del disastro ambientale ed ha iniziato un’indagine a tappeto. A Giuseppe è stata stroncata la carriera e rovinata la vita per aver denunciato una catastrofe, per aver tentato di difendere la salute di tutti noi. Conosceva i rischi ma è andato avanti comunque. Da solo, contro tutti, con coraggio e determinazione. Ci è rimasto, nonostante tutto, ancora un briciolo di speranza per queste nostre martoriate terre. Ma la battaglia sarà ancora lunga.
